sabato 16 aprile 2011

La Cooperazione Internazionale, vero modello sociale da esportazione

La tragica e barbara uccisione di Vittorio Arrigoni sta, giustamente, colpendo tutta l'opinione pubblica. Ciò che sembra inspiegabile è soprattutto l'aver colpito un volontario il cui ruolo, nel delicato scacchiere israelo-palestinese, era quello di lottare per favorire il dialogo. Un “pacifista”, se questo termine non suonasse, oggi con mai, così attuale ed allo stesso tempo anacronistico.

Gli scenari di guerra e post-bellici, oltre alle catastrofi naturali, sono il terreno dove lavorano le onlus ed in generale tutto il settore della Cooperazione Internazionale. Nel quale trovano lavoro tantissimi professionisti del sociale, con dati in costante aumento. Sino alla fine degli anni '80, la Cooperazione Sociale era organizzata in maniera avventuristica. Ottimi propositi, grande voglia di fare ma sicuramente pochi mezzi. Indubbio che i primi aiuti umanitari sono state le varie spedizioni religiose in scenari quali l'Africa ed il Sud America. Accanto a questi missionari, i laici hanno sviluppato una rete fittissima di associazioni, cooperative ed enti non governativi che in realtà oggi rappresentano la vera ancora di salvezza per le popolazioni locali.

Cercando di fare un breve censimento delle più grandi presenti in Italia, mi sono trovato davanti a moltissime possibilità, variegate a seconda dell'area di intervento. Quelle che operano nel campo internazionale e con una struttura definitiva e professionale sono oltre 100. E basta un piccolo tour nei siti di annunci di lavoro, per scoprire che molte di queste cercano personale, e di tutte le tipologie. Da educatori a manager esperti di scienze diplomatiche. Da semplici volontari piastrellisti e giardinieri a traduttori.
Le onlus operano nella ricostruzione post-terremoto, nella costruzione di ospedali, nel recupero sociale di zone degradate, nel supporto psicologico. Ma anche nella bonificazioni di terreni malsani, nell'insegnare arti e mestieri.
Ed anche il mondo dell'Università ha iniziato ad accorgersi di questa realtà.
A Terni l'Università di Perugia ha attivato da circa 2 anni un corso triennale in Scienze Sociali e della Cooperazione, con la possibilità di una laurea specialistica in Cooperazione Internazionale.
E nel corso di laurea c'è un po' di tutto: dalla sociologia al lavoro dell'educatore sino ad esami in condivisione con Scienze Politiche.

E' un mondo affascinante, nel quale la volontà delle persone che sono sul campo rappresenta il vero punto di forza. Purtroppo, se si eccettua chi parte come volontario, coloro che operano professionalmente sul campo non hanno una retribuzione adeguata rispetto ai propri compiti. Spesso i contratti durano pochi mesi e questo si unisce ad una oggettiva difficoltà nell'operare in contesti pericolosi, senza un supporto delle autorità locali (tutt'altro..) ed in luoghi impervi.

L'Italia, storicamente, è in prima linea. Ma ora anche il resto del Mondo sta facendo la sua parte. La verità è che senza il Terzo Settore oggi non sarebbe possibile ricostruire le città dopo terremoti devastanti o evitare che in zone impervie dell'Africa si muoia a due anni di dissenteria.

Ragioniamo con dei dati.
L'Albania è un paese nel quale sono maggiormente presenti onlus ed organizzazioni non governative italiane. E non manca una forte presenza del Terzo Settore da molti altri paesi. 
I dati ufficiali del Ministero degli Esteri sottolineano che nell'anno 2007 l'Albania ha ricevuto aiuti per 305 milioni di dollari, pari al 2,8 % del suo prodotto interno lordo.
Questo grafico mostra le aree di intervento oggetto degli Enti di cooperazione internazionale:

Si nota immediatamente la grande varietà di settori di intervento. 
Sono 17 le grandi organizzazioni internazionali di volontariato che operano in Albania. Alcune, come la World Bank, nel 2009 aveva ben 24 progetti attivi nel territorio. 

Passiamo alla Palestina, dove si è consumato il tragico omicidio del volontario italiano.
Sempre secondo il nostro Ministero degli Affari Esteri, sono attive nel territorio della striscia di Gaza ben 17 iniziative direttamente finanziate dal Governo italiano, che riguardano l'industria e l'artigianato, la pesca, l'acqua, la tutela dei minori e molte altre. 

sabato 9 aprile 2011

Social Workers. Bene, ma se all'interno della rete

L'esperienza anglosassone del Social Workers può essere replicata anche in Italia. Stiamo parlando di figure di care che interagiscono con il soggetto in situazione di disagio e non rappresentano nessuna delle componenti istituzionali legate ai servizi.
Il social worker non è un medico e tantomeno un infermiere. Non è un educatore e non è lo psicologo. Trattasi invece di una figura che vive a contatto con il malato, e conduce un lavoro di socializzazione, educazione, supporto emotivo (senza sconfinare nel counseling) ed alle volte anche solo contenimento.

Mi rendo conto che da questa descrizione scaturiscono delle ovvie domande. Che titolo deve possedere il social worker e pertanto qual'è la sua professionalità? Come fare a sceglierlo?
Sono domande cui la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l'Australia hanno risposto con nettezza. Il social worker non  deve avere un titolo di studio specifico, ma di certo deve avere una attitudine. L'esperienza anglosassone però insegna che sono soprattutto psicologi ed educatori alla ricerca di prima occupazione che decidono di intraprendere questo percorso. Secondariamente: chi può garantire una certa "professionalità" di queste figure? Di certo l'associazionismo può essere una garanzia. Il volontariato, strutturato in maniera così forte in Italia, che tra l'altro provvede ad una formazione specifica al proprio personale, sembra essere la figura del Terzo Settore più congrua per dare delle garanzie alla famiglia od all'equipe che reputa opportuno attivare un percorso di affiancamento.

Il social worker collabora con tutte le figure di riferimento del malato. Dai familiari al medico, dall'infermiere ai vicini di casa. Può anche affiancarlo nelle attività di amministrazione quotidiana (pagamento bollette etc..).

Se inserito in un contesto di rete è indubbia la sua validità. Certamente il welfare inglese ha creato questa figura anche per sgravare di costi educativi la pubblica amministrazione. Questo è il più grave rischio che si può correre. Se il social worker lavora accanto all'educatore, al medico, allo psichiatra, al counselor ed all'infermiere può divenire una figura fondamentale. Se invece sostituisce una di queste figure, i danni potrebbero essere irreparabili.

domenica 3 aprile 2011

Alzheimer. Una crescita costante e preoccupante

I dati sono ormai implacabili. Nel mondo viene diagnosticato un nuovo caso di Alzheimer ogni 7 secondi. Ed il 60% delle persone affette da questa demenza abitano nei paesi industrializzati. Un dato che, nel 2014, si alzerà sino al 71%.
Nei paesi dove i dati vengono monitorati con maggiore attenzione, ad esempio gli Stati Uniti, si calcola che di coloro che in questo anno compiranno 65 anni, ben 8 su 10 saranno affetti da una demenza in età avanzata. Sono percentuali preoccupanti, per diverse motivazioni.
La prima. Non siamo attrezzati a gestire una emergenza così grande. In Italia manca un reale rafforzamento della rete di servizi domiciliari. Abbiamo molte strutture residenziali per anziani, le Residenze Sanitarie anche chiamate RSA, che però nel caso dell'Alzheimer non possono risolvere il problema, considerando soprattutto la crescita esponenziale di casi.

Secondo. Le famiglie non hanno la forza economica di fronteggiare un caso di demenza dentro le mura domestiche. Si calcola che un malato di Alzheimer abbia un costo annuo complessivo di circa € 60.000,00 che vanno suddivise tra costi che ricadono sulla famiglia, sui servizi sociali e sul servizio sanitario. A questo costo però va aggiunta la sofferenza del nucleo familiare, che non viene supportato dalla rete dei servizi.

Occorre dare priorità a questo problema, che non meno di 1 anno fa l'Alzheimer's Disease Internation ha definito "bomba ad orologeria" che esploderà nell'ambito sociale.
In questo contesto la soluzione sembrerebbe essere univoca, e trova l'accordo di gran parte degli esperti e degli istituti di ricerca. Destinare maggiori risorse ed attuare dei Piani nazionali di assistenza.

Per saperne di più: http://www.corriere.it/salute/11_aprile_03/alzheimer-generazione-emergenza-riccardo-renzi%20_e0342002-5c85-11e0-b06c-b43ad3228bba.shtml

http://www.nuovasocialita.org/alpioppo/archives/445